domenica 23 luglio 2017

Dethrone the Sovereign - Harbingers of Pestilence: il DNA del 2000

(Recensione di Harbingers of Pestilence dei Dethrone the Sovereign)


Uno degli sforzi maggiori che qualsiasi artisti si ritrova ad effettuare è quello di distinguersi dal resto dei gruppi. Trovare la propria strada non è mai semplice ed è un processo che molto spesso necessita di molto tempo. Ma c'è, invece, chi ha una capacità così grande di concepire della musica che non ha nessun vincolo con cose esistenti, o, piuttosto, questo vincolo non è così forte da essere tra le caratteristiche più note del gruppo. Infatti non c'è niente di peggio che essere etichettati da "il gruppo che assomiglia a...." o "quelli che hanno un suono molto simile a....". Insomma, è un duro lavoro dove la creatività deve fluire libera.

Oggi vi parlo di una band statunitense chiamata Dethrone the Sovereign, che dopo due EP in una travagliata storia, che ha portato alla band ad avere una conformazione che sembra definitiva, soltanto nel 2015, ci presenta il loro primo LP intitolato Harbingers of Pestilence. C'è da dire che per essere il primo vero lavoro diretto ad un ampio pubblico questo disco è molto ben riuscito. Sorprende l'insieme di elementi messi insieme, elementi che cercano la realizzazione dello scopo principale del gruppo, cioè riuscir a distinguersi dagli altri gruppi nel panorama musicale metal. Per quello sorprende molto come confluiscano delle idee che temporalmente appartengono a molti momenti diversi. Certi suoni ricordano il metal progressivo degli anni 90 ed altri legano la loro musica al tech metal di questi anni. Infatti la band sembra essere una specie di contenitore dove trova spazio tutto quello che i suoi musicisti amano. C'è anche da dire che l'impronta di metal americano è molto molto presente e lo si nota nel fatto che i brani che compongono questo disco sono molto diretti e non accennano a perdersi tra i rami. Per quello i brani sono concreti e decisi, prerogativa che cozza con l'idea primordiale di quello che è il metal progressivo.

Harbingers of Pestilence

Vale dunque la pena approfondire quello che possiamo ascoltare in questo Harbingers of Pestilence. Come dicevo c'è un forte contrasto tra quello che originalmente era la musica progressiva e quello che fa la band. Se prima avevamo dei brani con sviluppi lunghissimi e brani molto strutturati nel caso dei Dethrone the Sovereign tutto è molto più diretto ed asciutto. C'è sempre questa volontà di dare uno sviluppo orizzontale ai brani disdegnando gli schemi più tradizionali della "forma canzone" ma è tutto energico, forte, diretto, una sovraccarica d'informazione. Per quello ciascun minuto di questo disco ha un sacco di note che s'intrecciano in ritmiche impazzite. Per quello anche la voce ha la stessa urgenza di vomitare un mare di parole in modo energico, perché diventa fondamentale l'impatto. C'è da sottolineare il virtuosismo messo in campo da tutti i musicisti, dove il riparto chitarristico, come succede molto spesso, si giostra il protagonismo con la voce. Il riparto ritmico è sempre pronto, invece, a sorreggere questa mastodontica costruzione sonora. Ma se c'è una caratteristica fondamentale che serve a differenziare il lavoro della band da quello di tanti altri gruppi che potrebbero intraprendere un lavoro simile, ecco che chiamo in soccorso le tastiere. Infatti gli interventi dei synth è molto interessante perché cavalca senza alcun problema una quarantina di anni di storia della musica. Per quello abbiamo dei momenti assolutamente moderni, che infatti si aggiudicano perfettamente il nominativo di modern metal, ed altri dove le tastiere utilizzano un background classico, a tratti sinfonico, creando un contrasto bellissimo col resto della parte strumentale.

Mi piace molto riflettere sull'evoluzione di certi generi. Per esempio credo che una ventina di anni fa sarebbe stato impensabile poter definire di progressivo un disco dove la maggioranza dei brani hanno una durata che si aggira intorno ai quattro minuti. Ed invece è proprio così, la musica dei Dethrone the Sovereign può considerarsi perfettamente una fedele mostra di quello che è il progressive metal odierno. Harbingers of Pestilence è un disco che riflette perfettamente quello che è la nostra società, il nostra modo di vivere frenetico e sovraccarico d'informazioni.

Dethrone the Sovereign

Ci sono tre brani che, dal mio punto di vista, spiegano perfettamente quello che possiamo ascoltare in questo disco. Questi sono:
Era of Decepcion part I e part II. Due brani che aprono questo disco e che permettono di capire perché la musica della band si distanzia da tanti altri gruppi che nuotano più o meno nelle stesse acque. E' questo disegno di contrasti, quest'idea che suggerisce un passato musicale che poi esplode ed approda in un discorso musicale molto diverso, perché il contrasto nella musica di questo gruppo non lavora soltanto su aspetti dinamici ma anche sui suggerimenti temporali che originano i diversi suoni. Ma come di regola fissa di tutto questo disco tutto è dinamico, urgente e veloce.
The Eternal Void. Anche qua siamo di fronte ad una serie di contrasti che potrebbero ricordare certe cose fatte con maestria dagli immensi Cynic, band che ha avuto un influenza immensa nella concezione di questo nuovo modo di fare metal progressivo. Dopo quest'intro molto ricercata il brano esplode avendo in tutti i casi un tocco molto interessante grazie al lavoro sinfonico delle tastiere, che aiutano a trasportare tutto in una direzione diversa da quella che si potrebbe immaginare. 


Si nota l'energia dei Dethrone the Sovereign, si nota quella voglia immensa di dire la loro in un campo che sembra ancora molto fertile. E la cosa interessante è che con questo Harbingers of Pestilence abbiamo a disposizione un modo di capire non soltanto le nuove direzioni del progressive metal ma anche, e di conseguenza, di quello che è la nostra società, dove è molto più facile avere accesso alla tecnologia, all'informazione, a tutta una serie di stimoli, che in certi casi diventano anche eccessivi. La musica di questo disco va decodificata perché contiene un sacco d'informazione, e capirlo fino in fondo è molto utile.

Voto 8/10
Dethrone the Sovereign - Harbingers of Pestilence
Famined Records
Uscita 28.07.2017

venerdì 21 luglio 2017

Sun of the Sleepless - To the Elements: la natura comanda

(Recensione di To the Elements di Sun of the Sleepless)


Quanto tempo deve passare prima che un progetto sia così maturo da presentarci un disco intero? Questa è una questione sulla quale si può dibattere tanto senza che ci sia un'unica risposta. Ci sono musicisti che sentono l'urgenza di produrre continuamente del materiale e di registrarlo dandoli poi un formato fisico. C'è chi invece preferisce prendere tempo e capire che soltanto quando una serie di elementi possono essere messi insieme allora è arrivato il momento di fare qualcosa d'importante. Ripeto, non c'è una regola fissa ma, come capita molto spesso, la verità sicuramente sta nel mezzo. 

To the Elements

Ci son voluti ben 18 anni prima che avessimo la possibilità di ascoltare un full lenght di Sun of the Sleepless, progetto solista di Markus Stock, musicista tedesco di vastissima esperienza che ha legato il suo nome a progetti fondamentali come gli Empyrium. Il risultato di questo attesissimo debutto ha per titolo To the Elements
La prima cosa che salta fuori ascoltando questo disco è che nulla è stato fatto in fretta, ma, piuttosto, tutto quello che possiamo ascoltare in questo disco è frutto di riflessione, di sperimentazione e di una scrematura che porta ad avere un risultato concreto. Per quello questo disco è un disco che suona con una sicurezza che può essere solo frutto di una grande esperienza, cosa che in tanti gruppi viene raggiunta soltanto molto, molto tempo. Infatti questa sicurezza viene denotata dalla capacità di mettere insieme una serie di elementi che non fanno parte soltanto dell'immaginario black metal. Oltre a quello c'è tutta una serie di sfumature musicali che tendono a voler stabilire con chiarezza l'universo sensoriale di questo progetto, vale a dire una poetica oscura ma soprattutto mistica che non ha paura a legarsi e pescare dai testi di autori come Shakespeare o Tolkien. La natura viene esaltata nelle parole di questo disco, sottolineando la potenza che ha e il misticismo che racchiude. 

To the Elements

Ecco, questo diventa un lavoro prezioso per far capire quanto l'universo del black metal sia ampio ed abbia la capacità di districarsi in mezzo a tante tematiche con un approccio che è molto mutato negli anni. Non solo quello, c'è anche il fatto che musicalmente si lasci spazio a certe contaminazioni che sarebbero state inaccettabili in un contesto purista ma che giovano alla crescita e allo sviluppo di un genere che sembra avere sempre nuove cose da dire. La musica di Sun of the Sleepless infatti guarda in più direzioni cercando solo di accentuare l'idea perseguita. Per quello abbiamo spazio a tante contaminazioni dark ambient o dark folk, che danno una dimensione ancora più naturistica. To the Elements, è un disco che suggerisce senza alcuna difficoltà l'idea di natura, della parte più selvatica ma anche più pura. E per fortuna esistono ancora quelli angoli incontaminati dove l'uomo è in obbligo di piegarsi alle dinamiche della natura senza neanche accennare ad imporre la sua parte e posizione. 

To the Elements

Penso che in quest'idea si possa perfettamente racchiudere To the Elements, nella congiunzione di tutti gli elementi che servono a capire la magnificenza della natura, delle sue creature e di quello che ci trasmette. Per quello leghiamo ancora la nostra immaginazione ad una serie di sensazioni legate alla natura, per esempio la paura a rimanere da soli in mezzo ad un bosco senza trovare la strada, come il fascino di ritrovarci un paesaggio maestoso rimanendo senza parole di fronte a tanta bellezza, come lo stupore di fronte a qualche bestia che incontriamo per la prima volta senza sapere bene como comportarci. Sun of the Sleepless ci regala  tutte queste sensazioni grazie ad un disco intenso e perfettamente centrato sulla sua intenzione.

Sun of the Elements

Voglio pescare due brani da guardare con la lente d'ingrandimento, questo per farvi capire come i limiti di questo disco vengono spinti al massimo verso altri luoghi.
Il primo è The Owl. Delizioso nella sua intro di chitarra acustica ci introduce perfettamente nel mondo che vuole descrivere. Si sente la notte, si sentono i movimenti minimi che non bastano per diventare una preda. Poi viene lo scoppio, la festa solitaria, il godersi i risultati della caccia. E' un brano cinematografico, pieno di immagini, prezioso.
Il secondo rappresenta la nota diversa di questo disco. Mi riferisco a Forest Crown. E' un brano interamente acustico dove la parte folk prende il sopravento regalandoci una specie di ballata con riminiscenze medievali. Bellissima parentesi.



Tirando le somme c'è da dire che i 18 anni presi da Sun of the Sleepless per regalarci il suo primo disco intero sono stati sicuramente degli anni dedicati a trovare la miglior sintonia tra quello che To the Elements ci racconta e il modo di raccontarlo. Per quello questo disco ha una grandissima personalità, dove, trattandosi di un progetto solista, si capisce alla perfezione la strada intrapresa dall'ideatore di questo gruppo. Si capisce che il disco che ci ritroviamo tra le mani è pieno di impulsi che ci devono portare a guardare la natura con altri occhi. Perché sicuramente è quello il modo migliore di guardarla.

Voto 8,5/10
Sun of the Sleepless - To the Elements
Lupus Lounge
Uscita 21.07.2017

Pagina Facebook Sun of the Sleepless
Pagina Bandcamp Sun of the Sleepless 

mercoledì 19 luglio 2017

Neun Welten - The Sea I'm Diving In: immergersi nel mare dell'anima

(Recensione di The Sea I'm Diving In dei Neun Welten)


Quante sfumature può avere l'oscurità? Quanti modi diversi di viverla ci sono? La musica ci ha dimostrato che l'oscurità può essere perdutamente elegante e molto più affascinante della parte luminosa. Perché l'oscurità è molto di più dell'assenza, parziale o totale, di luce. L'oscurità è tra l'altro trasversale e si nutre di immagini che ormai da secoli sono passate ad essere dei simboli che si riconoscono subito. Per quello amo molto di più camminare all'ombra, per quello la notte mi sembra molto più interessante, per quello il silenzio dell'oscurità mi sembra una cura al rumore della luce.

The Sea I'm Diving In

L'oscurità presente nel terzo LP dei tedeschi Neun Welten è tra gli esempi più vellutati ascoltati fino ad adesso. Tutto ciò grazie all'equilibrio raggiunto in questo The Sea I'm Diving In. C'è spazio sufficiente a quello che è la matrice essenziale della band, cioè un dark folk o neo folk, come si preferisce, che regala atmosfere acustiche oniriche dove chitarra acustica e violino si ritrovano a dialogare consapevoli dei propri ruoli. A questo dark folk va aggiunta una novità, cioè la presenza, molto misurata e ben lavorata di una chitarra elettrica che si districa tra suoni post rock sempre puntuali e complementari. Aggiungiamoci un utilizzo molto ben pensato delle voci e abbiamo il quadro completo. Questo è un disco che non ha bisogno d'urlare, ma i suoi cambi di dinamica risultano così effettivi che hanno molto più impatto di qualcosa più "brutale". C'è un altro aspetto che diventa prezioso, cioè l'utilizzo e l'individuazione di melodie vocali bellissime, piene di una poetica che sembra essere pescata dall'opera di Edgar Allan Poe, infatti non è un caso se molte delle parole di questo disco prendono proprio influenza dai suoi lavori.

The Sea I'm Diving In

Quello che capita ascoltando The Sea I'm Diving In è che ogni ascolto regala nuove sfumature che portano a capire la grandezza di questo disco. Per quello non bisogna lasciarsi ingannare da un primo ascolto che potrebbe suggerire di essere di fronte ad un disco eccessivamente piatto, comodo nelle suo atmosfere di luce tenue. L'utilizzo di tutto quello che i Neun Welten hanno a disposizione diventa maestoso, cresce e sminuisce quasi fino a scomparire con la magia di un prestigiatore che, in tutti i casi, lavora con magia vera e non con l'illusione. Per quello ogni canzone di questo disco appartiene, e costruisce, un mondo a parte. Abbiamo undici mondi, o undici poesie che ci trascinano dentro ad un mare infinito. Non sentiamo paura, anzi, prevale una strana felicità, un senso di estasi dato da quello che vediamo, dalla sensazione morbida dell'acqua che ci circonda, che ci accarezza, che non è mai violenta. Ecco, forse questo è il punto chiave, questo è un disco fortissimo, ma la sua forza non è devastante, non ci butta addosso tutta la sua potenza ma modifica piano piano tutto quello che ci circonda fino ad essere l'unica protagonista: la magia ha funzionato.

The Sea I'm Diving In

The Sea I'm Diving In ha un'altra grande virtù, ed è quella di essere un disco dove il tempo sembra congelato e non sembra affatto essere importante. E' un disco che suona classico, è un disco che si rifà all'immaginario del ottocento ma è anche un disco che si arricchisce del presente e di impulsi sonori che hanno un grandissimo sviluppo nell'avvenire. Insomma, i Neun Welten passeggiano comodissimi tra questi insiemi sapendo dove andar a prendere quello che va meglio in ogni singolo momento. Ma tutto è naturale, tutto è non soltanto suonato ma anche vissuto. Senza mai cadere nell'eccessivo, senza mai utilizzare vie scontate, ma, nello stesso tempo, sapendo che quello che fanno non è alla portata di tutti, perché come al solito non si tratta soltanto di saper prendere diversi elementi, ma anche di saper mettergli insieme.
Neun Welten
E' difficile scegliere due o tre tra questi undici mondi che costruiscono questo disco ma ci provo. Per quello il mio consiglio d'ascolto va, soprattutto, alle seguenti canzoni:
Drowning. Brano che inizia sin da subito con un intreccio di voci quasi sussurrate sopra ad una base nostalgica dove il violino trova pane per i denti facendo fluttuare nel vento delle melodie pregevolissime. Ed è quando potrebbe sembrare che tutto è troppo statico che il brano esplode, che si apre, che fa entrare l'acqua da tutte le parti, perché c'è solo l'accettazione di stare immergendosi in eterno in quel mare dell'anima.
Cursed. La teatralità delle sue prime parti ci riportano indietro nel tempo. Sembra d'assistere ad una canzoni che ha attraversato il tempo e lo spazio fino ad arrivare a noi e poi, ancora una volta, tutto si modifica, gli schemi cadono e l'emozione esce fuori senza freni. Una carezza vellutata che asciuga una lacrima, una sola. E' una canzone di consapevolezza, di sapere che non ci si potrà mai separare di un fardello da portarsi per sempre appeso.
Floating Mind. Se il brano anteriore era un brano di una struggente delicatezza questo qua è uno dei più grandiloquenti di questo disco. Anzi, come ho detto altre volte, se la strumentazione della band fosse diversa, se la componente acustica fosse rimpiazzata da strumenti elettrici, quello che avremmo di fronte sarebbe una canzone di una potenza unica. Costruita su un riff schiacciasassi tutto quello viene dopo è un susseguirsi di momenti di calma ed altri di un temporale irrefrenabile. Ecco, senza gridare molto spesso si urla molto di più.


The Sea I'm Diving In mi ha fatto rinnovare la mia fede in quel genere di oscurità che insegna tanto. Mi fa pensare a tutte le cose che molte persone dovrebbero conoscere per capire meglio il mondo. E' un disco che va dritto dove deve andare, che non si perde per strada e che scivola come l'elemento che l'ispira. I Neun Welten ci fanno provare l'acqua in tanti modi diversi facendoci capire che quando si riesce ad immergersi nell'oceano delle nostre emozioni allora siamo uno con noi stessi, bellissimi ed immortali. 

Voto 9/10
Neun Welten - The Sea I'm Diving In
Prophecy Productions
Uscita 21.07.2017

martedì 18 luglio 2017

GlerAkur - The Mountains Are Beautiful Now: la bestia prevale sempre

(Recensione di The Mountains Are Beautiful Now di GlerAkur)


Che cos'è l'arte? Perché dopo anni ed anni di civiltà l'arte continua a esistere avendo una forza imparagonabile in qualsiasi altro elemento? Perché c'è gente nata per regalare nuovi elementi all'arte? Perché le diverse discipline artistiche s'intrecciano, si cercano, si mangiano, si contaminano? Una società senza arte è una società vuota, misera, anemica e sterile. Le emozioni che si provano di fronte all'ascolto di certa musica, all'osservazione di certi film o di certi quadri, alla lettura di certi romanzi o racconti, sono delle emozioni uniche ed imparagonabili. Perché? Perché, semplicemente, l'arte è vita e senza arte non c'è più vita.

The Mountains Are Beautiful Now

The Mountains Are Beautiful Now è un titolo pazzesco, di una bellezza da far venire la pelle d'oca. E' un estasi di felicità raggiunta, la consapevolezza di essere arrivati a trovare il proprio paradiso in terra. Ma dietro a questo titolo c'è tanto altro, c'è cultura, c'è storia e c'è la personalità complessa di un musicista che poco a poco si svela al mondo: GlerAkur. Di lui vi avevo già parlato circa un anno fa, quando la Prophecy Productions, una delle case discografiche più lungimiranti che ci sia, mi diede modo di ascoltare in anteprima un EP meraviglioso intitolato Can't You Wait (recensione che potete leggere qui). Solo tre canzoni mi hanno messo di fronte a certe sonorità mai ascoltate, ad un insieme di note che avevano la capacità di trasportare l'ascoltatore e di portarlo in un mondo fatto di roccia, di vento, di luci naturali e di scoperte. Da allora la voglia di sentire qualcosa di più, proveniente da questo, all'epoca, sconosciuto progetto islandese, era inarrestabile. Ebbene, l'attesa è finita.

The Mountains Are Beautiful Now

Per capire The Mountains Are Beautiful Now bisogna prima mettersi al corrente di un paio di elementi importanti. 
Primo, chi è GlerAkur? Dietro a questo moniker si nasconde Elvar Geir Sævarsson, compositore e sound designer islandese che lavora essenzialmente col teatro nazionale del suo paese. Questo progetto era il suo contenitore di sperimentazioni e di idee. Ma la tremenda originalità dei suoi lavori ebbe un effetto tale che poco a poco fu fondamentale che la musica uscisse dall'ambito privato e diventasse usufruibile da tutti. Come? In due modi, il primo è grazie alla registrazione dei due lavori che possiamo trovare di GlerAkur ed il secondo è riuscendo ad apprezzare dal vivo queste composizioni. E qua si apre una parentesi fondamentale; l'unico modo di dare questa dimensione live è quella di avere un gruppo formato da quattro chitarristi, due batteristi ed un basso. Perché? Perché c'è una radice metal che si mescola con la parte di disegno sonoro, perché la via facile sarebbe tirare fuori dei lavori pieni di registrazioni programmate, di synth spaziali e quant'altro. Ma non è così dentro alla testa di Elvar Geir Sævarsson, la sua musica deve essere uno tsunami sonoro, dev'essere un'onda travolgente che non può lasciare nessuno immune. Deve esserci la potenza suonate, sudata e trascinata. Devono esserci sette menti che riescono a dialogare sulla stessa lunghezza d'onda.
Secondo elemento fondamentale, The Mountains Are Beautiful Now è una riproposizione delle composizioni di Elvar Geir Sævarsson per l'opera teatrale Fjalla-Eyvindur og Halla. Quest'opera, degli inizi del secolo scorso è un'opera islandese molto importante, crudele e sentita. In grosse linee narra la storia di un fuorilegge che nella sua sfuggita s'innamora e diventa padre rifugiandosi nelle montagne, ma quando viene braccato si vede costretto a uccidere uno dei suoi inseguitori e la sua moglie fa altrettanto con la loro piccola figlioletta, per evitarle di vivere una vita di persecuzioni. La morale è che la società trasforma gli uomini in bestie, la natura trasforma gli uomini in bestie, l'amore trasforma gli uomini in bestie. Insomma, non si può mai sfuggire da quello che siamo, da quell'impulso interno che cerchiamo di tenere sotto controllo.


GlerAkur

Avendo a disposizione queste informazioni possiamo addentrarci dentro a The Mountains Are Beautiful Now. Quello che penso che sia chiaro a tutti è che siamo di fronte ad un disco estremamente visivo, uno di quei lavori che non ha bisogno di parole per raccontare tante cose. Ma qua la cosa si fa interessante. Come si può comporre la colonna sonora di una storia così forte? Credo che le vie sono pressoché infinite.La via scelta da GlerAkur è una via interessantissima che porta intrinseca la provenienza geografica. Per quello c'è molto post rock e ambient nella loro musica ma ci sono altri elementi fondamentali. Anche qua è d'obbligo far riferimento ad un'altra informazione. Lo stesso Elvar Geir Sævarsson dichiara che per suonare con lui bisogna seguire due regole: suonare semplificando al massimo quello che si suona e ripetere a loop le frasi che vengono fuori fino a riuscir ad entrare in pieno dentro al mood di quello che si sta suonando. In altre parole le cinque tracce di questo disco si costruiscono su composizioni cicliche che si arricchiscono o si spogliano fino ad arrivare a trasmettere il loro scopo. Per quello c'è tanto di drone music dentro a questo disco. Ma c'è ancora altro. La accurata ricerca sonora porta questo disco ad avere delle chitarre così tanto trattate da diventare un nuovo materiale sonoro da modellare, e molto di quel materiale prende ispirazione al suono del black metal. Cioè chitarre distorte, taglianti e pesantissime. Ecco la componente più cupa e bestiale di questo disco.


GlerAkur

Forse il caso di GlerAkur è uno dei casi dove più si capisce come confluiscono una serie di generi per crearne uno nuovo. C'è una forte impronta islandese in questo The Mountains Are Beautiful Now ma c'è anche una forte componente cinematografica. Queste due linee non bastano a dare tutta l'originalità dovuta ed è a questo punto che si aggiunge un terzo mondo fondamentale: quello del metal che prende la bestialità e l'irrefrenabile forza del black metal. Ecco, con questi tre elementi sarebbe facile perdersi e rifinire rimediando un bel pasticcio. Nel caso di questo disco, invece, quello che viene fuori è sorprendente, perché certi elementi tracciano la strada e gli altri la addobbano in modo di renderla unica. Questo è un amore bestiale, tanto bello quanto distruttivo. 



Anche in questo caso mi è ben difficile far prevalere certi brani sugli altri. Di queste cinque tracce una la conoscevano già, si tratta di Can't You Wait, brano che aveva regalato titolo all'EP di esordio del progetto. Per quello delle quattro altre canzoni vi faccio un piccolo riassunto di quello che racchiude ognuna di loro.
Il disco si apre con un brano strepitoso intitolato Augun Opin. Il tappetto di chitarra sul quale si adagia tutto il resto è bellissimo. Qua vediamo come il ruolo di una delle quattro chitarre sembra rimpiazzare quello che potrebbe essere fatto da un synth, ma è questa la bellezza, l'elemento d'avanguardia che ricorda quello che viene fatto in band strepitose come i King Crimson o i Gordian Knot. E' un mondo fatato reso musica.
La terza traccia è HallAlone e personalmente è il brano che mi ha lasciato qualcosa in meno con rispetto a tutti gli altri. Il suo inizio è assolutamente drone diventando un sottile crescendo di musica, di fraseggi arpeggiati, di ossessive reiterazioni.
Strings è uno dei punti più alti di questo disco. Un brano lungo ben 15 minuti che da la dimensione perfetta di quello che musicalmente succede in Islanda. Infatti potrebbe perfettamente sembrare una canzone dei Sigur Rós con una differenza sostanziale, lì dove si ferma la spinta di questo ultimo gruppo e proprio lì che GlerAkur insiste, per quello le due batterie diventano una valanga che non vuole fermarsi, per quello i suoni si espandono fino a riempire tutto lo spazio. Bellissima
Il disco si chiude con Fagurt Er Á Fjöllunum Núna, ed è qua che i tre mondi dialogano magistralmente e che si capisce la bestialità autodistruttiva della storia narrata. Questo è un brano che inizia con la bellezza dell'amore, con intrecci preziosi di chitarre che regalano un tappetto fondamentale per lo scontro che avviene verso la fine. Su questa costruzione si sovrappone una parte perfettamente black metal di chitarre spinte al massimo nell'overdrive, delle due batterie che hanno intenzione di bucare il pavimento, perché? Perché la bestia ha vinto, e quando vince non rimane null'altro.

The Mountains Are Beautiful Now è molto di più di quello che sembra. Non è la "semplice" colonna sonora di un'opera teatrale "vecchia" cent'anni. Quello che strumentalmente ci viene regalato da GlerAkur è una metafora della vita, di quello che ciascuno di noi, in modo diverso, insegue, cioè la bellezza. Ma è anche il riflesso dell'anima bestiale che vive dentro di noi e che, quando prende il controllo, spazza via tutto quello che è stato costruito in anni ed anni. Questo è un disco che parla dell'essere umano, del nostro sforzo eterno di non essere più animali quando, in realtà, quella bestialità non ha solo a che fare con la natura ma semplicemente con la vita. Per quello si uccide, si distrugge, ci si scontra, ci si ossessiona e ci si mette sempre in conflitto, come se l'essere in conflitto con qualcuno o qualcosa fosse fondamentale. Ebbene sì, la bestia ha sempre il sopravento.

Voto 9/10
GlerAkur - The Mountains Are Beautiful Now
Prophecy Productions
Uscita 21.07.2017

Pagina Facebook GlerAkur
Pagina Bandcamp GlerAkur 

lunedì 10 luglio 2017

A Stick and a Stone - The Long Lost Art of Getting Lost: perdersi, sempre

(Recensione di The Long Lost Art of Getting Lost dei A Stick and a Stone)


Ci sono piccole grandi rivoluzioni che l'umanità, poco a poco, si è conquistata. Per esempio la tolleranza sessuale e l'accettazione di qualsiasi scelta personale venga presa da ciascuno. Per quello, e grazie anche ai progressi in campo medico, chi nasce con la consapevolezza di non avere il genere sessuale giusto può intraprendere una strada che lo porti ad essere quello che veramente vuole essere. Credo che quelle persone sono veramente coraggiose ed abbiano un bagaglio di esperienze ricchissimo e che molto ci può insegnare.

Perché introduco questa mia nuova recensione parlando dei transgender? Perché uno dei due membri di A Stick and a Stone lo è, e non credo che si tratti di un dato aneddotico e basta. Credo che il sound particolare e ricercato di questa band si nutra del terreno particolare di qualcuno che ha cambiato sesso e che guarda il mondo da un'ottica unica. Il loro disco che sottopongo alla mia lettura è  The Long Lost Art of Getting Lost ed è la terza tappa nella storia di questo gruppo statunitense. La voce e mente di questo progetto risponde al nome di Elliot Harvey e si nota che la sua impronta è fondamentale nel risultato finale. La sua voce sembra più femminile che maschile ma si sorregge in una timbrica unica e molto interessante. Come è anche molto interessante la scelta strumentale che mette in primo pieno il basso e la batteria contando con interventi di violoncello che danno un carisma unico alla musica dei A Stick and a Stone, ricordando quello che viene fatto dagli Amber Asylum. Per capirci meglio posso dirvi che questo è un disco molto elegante, ben curato, di piacevolissimo ascolto dove la solitudine acquista delle tonalità vellutate. 


The Long Lost Art of Getting Lost


Sicuramente lo sforzo musicale della band tende ad abbracciare il mondo più cupo che si traduce in sonorità che hanno qualcosa di doom, qualcosa di metal d'avanguardia e una buona propensione di costruire oscuri, ma bellissimi, paesaggi musicali utilizzando al meglio gli impulsi del dark ambient. C'è qualcosa di molto intimo, di molto sentito in questo The Long Lost Art of Getting Lost. Non c'è alcun bisogno di urlare quello che si sente, basta dare la forza della poesia e dell'immaginario scelto per riuscir a far capire il messaggio. Come indica il suo titolo questo dei A Stick and a Stone è un album per anime solitarie che non sono in guerra col mondo perché hanno capito di poter costruirsi un proprio mondo, fatto di tutto quello che la maggioranza della gente rifiuta. Per quello c'è anche una specie di anti conformismo nella scelta strumentale di questo disco. Più che mai la base ritmica, basso-batteria, fa di collante perfetto a tutto il resto, facendo procedere con salite e discese le strutture musicali della band. A quello si aggiunge la voce unica e particolare di Harvey e gli interventi mirati delle corde. Tre mondi che s'intrecciano con l'intenzione di costruire qualcosa di unico. E ci riescono.

C' è qualcosa da spirito errante dentro alla musica di A Stick and a Stone, qualcosa che universalizza, e quasi divinizza, la loro musica. Quello che fanno non merita di essere qualificato con leggerezza ed urgenza cercando di paragonarlo a cose già sentite. Una cosa che mi ha chiamato molto l'attenzione è che citano tra le loro influenze Lhasa de Sela, strepitosa musicista multiculturale scomparsa prematuramente. Ecco, quella nostalgia universale presente nella musica di Lhasa è la stessa che si può ascoltare e soppesare in The Long Lost Art of Getting Lost. E' qualcosa che va sentito, che s'insinua fino al cuore, perché non è qualcosa di ragionato. Questo disco è uno specchio nel quale soltanto poche persone vedranno il proprio riflesso.


A Stick and a Stone

Due brani da vedere più nello specifico.
Quello che apre il disco e che si chiama Erosion. Curiosamente è forse il brano più energico dell'intero lavoro, anche se per questo non bisogna pensare che sia un brano "tirato". Si apprezza perfettamente l'equilibrio tra le parti dove ogni strumento sa cosa deve fare.
Il secondo brano è Hawk e lo scelgo perché permette di capire la particolarità e qualità della voce. Un brano pieno di pathos dove è fondamentale avere una guida forte e chiare come quella vocale. E' un brano più viscerale, dunque per niente facile.



The Long Lost Art of Getting Lost è l'esempio perfetto di quello che significa costruirsi un mondo a parte da quello convenzionale. Non si tratta soltanto delle caratteristiche del leader della band, o delle tematiche che vengono cantate; è proprio un modo di guardare il mondo con altri occhi, con la particolarità di voler esprimere qualcosa che è al di sopra di qualsiasi convenzionalismo, moda o corrente. Questo è uno di quei dischi che non hanno età, che vanno, e fanno, sempre bene. A Stick and a Stone ci insegnano a perderci, ed oggi quella è forse la miglior cosa che possa capitare.

Voto 8,5/10
A Stick and a Stone - The Long Lost Arto of Getting Lost
Sentient Ruin Laboratories
Uscita 21.07.2017

Sito Ufficiale A Stick and a Stone
Pagina Facebook A Stick and a Stone

venerdì 7 luglio 2017

Ueno Park - Feu Clair/Dix Mille Yeux: la fortuna di vivere

(Recensione di Feu Clair/Dix Mille Yeux di Ueno Park)


Un elemento chiave nell'insegnamento della musica e di qualsiasi strumento è quello di fare capire agli allievi che quello che aiuta a fare musica deve essere l'estensione del nostro corpo. Per quello suonare musica non è un qualcosa alla portata di tutti, o piuttosto, diventare un musicista non è alla portata di tutti. E forse è proprio quella la barriera che bisogna oltrepassare per diventare un musicista vero. Non c'entra la tecnica, non c'entra la capacità di suonare quante più cose possibili. C'entra soltanto la confidenza estrema col proprio strumento, in grado di riprodurre quello che ci frulla in testa e quello che abbiamo nel cuore.

Il disco che cercherò di spiegarvi quest'oggi è un lavoro molto diverso da tutto quello che vi ho raccontato fino ad adesso. Lo è perché è costruito solo con l'utilizzo della chitarra classica, senza amplificazione, senza effetti, senza altri strumenti e senza voce. Una chitarra solitaria e basta. Ma è anche diverso da tutto il resto perché questo disco è un diario lungo un anno. Si tratta di Feu Clair/Dix Mille Yeux di Ueno Park, nome artistico scelto dal chitarrista francese Manuel Adnot per il suo progetto solista. Più che mai diventa fondamentale che lo strumento, in questo caso la chitarra, sia la proiezione del corpo, della mente e del cuore. Non solo, ma questo disco diventa, in un certo modo, un album fotografico di un anno affascinante, un anno dove si intende che ci sono stati viaggi, scoperte, innamoramenti, grandi osservazioni e, di conseguenza, grandi riflessioni. La cosa più interessante è che quello che prevale più di qualsiasi altra cosa è l'emozione. Non c'è una ricercatezza tecnica, armonica, stilistica. Non serve, serve solo impregnare in ogni nota quello che si è appena vissuto. E l'ascoltatore riceve tutto ciò. Per quello queste "fotografie" sonore hanno una doppia vita, la prima quando sono state composte e registrate, cercando di congelare un'emozione, un sentimento o un momento vissuto; la seconda, quando vengono decodificate e reinterpretate da chi ascolta. In entrambi i casi la carica emotiva è immensa.

Feu Clair/Dix Mille Yeux

Come definire musicalmente questo lavoro? E' difficilissimo e per quello la via più semplice è quella di dire che siamo di fronte ad un disco sperimentale. Dove l'aspetto sperimentale giustifica l'ampio ventaglio di sensazioni sonore che vengono fuori da questo Feu Clair/Dix Mille Yeux, ma anche il fatto che è stato registrato in modo passeggero, veloce ed onesto, con la stessa urgenza con la quale sono nate queste tracce. Per quello il lavoro di registrazione non è stato svolto in uno studio ma Ueno Park ha scelto i posti dove immortalare queste canzoni in base ai momenti e al conferire alla suo musica altri elementi che facessero diventare questo disco qualcosa di unico. Per quello una galleria, una chiesa, una stanza vuota sono tanti degli spazi che andavano bene per questo disco. Scelte che sicuramente hanno a che fare con l'acustica e con la possibilità di arricchire quanto più possibile il suono senza l'utilizzo di elementi esterni, ma anche scelte circostanziali che indubbiamente hanno rafforzato la carica emotiva di ogni pezzo. Come vi dicevo prima questo è un disco fatto col cuore, con sentimento, e per quello i brani presenti sono molto diversi, qualcuno diventa quasi un mantra con piccoli fraseggi che si ripetono ossessivamente; altri sono fiumi in piena di note che si accavalcano con urgenza e voglia di uscire, una dopo l'altra, forti e presenti. Infatti sento che la difficoltà di suonare questo disco non stia tanto nella complessità delle sue composizioni, anche se certi brani sono difficili, ma nell'essere in grado di restituire la carica emotiva che hanno.

Feu Clair/Dix Mille Yeux

L'immagine che mi viene in mente pensando a questo Feu Clair/Dic Mille Yeux è molto bella. Per uno come me che ama la fotografia e che cerca di immortalare i momenti essenziali della propria esistenza, come i viaggi, è bellissimo pensare al fatto che il ragionamento fatto da Ueno Park è quasi lo stesso, ma invece di avere in mano la macchina fotografica e una chitarra che parla, che disegna, che cattura l'immagine per poi regalarcela, preziosa, unica, irripetibile. La spontaneità di questo disco colpisce dritta nel cuore perché non è perfetta, non è priva di piccole sbavature che magari in studio sarebbero imperdonabili, ma è proprio tutto questo a rendere questo lavoro prezioso, un lavoro che tocca il cuore dell'ascoltatore perché umano.

Ueno Park

Come capita con la fotografia i gusti sono molto soggettivi e qualcosa che ci tocca in uno scatto non necessariamente emozionerà tutti quanti, per quello è molto difficile slittare una qualsiasi "classifica" all'interno di questo disco adulando maggiormente qualche brano con rispetto agli altri. Io provo a raccontarvi due che in questi momenti sono riusciti a toccarmi di più.
Il primo è Cosmos, brano concretissimo che supera appena i due minuti. Mi piace per la sua emotività, per la sua pioggia infinita di note che assomigliano alle stelle cadenti che percorrono l'universo solo per essere viste da noi. S'impazzisce di fronte a tanta bellezza, così alta, così pura.
Il secondo è Eau Clair. Questo è un brano diverso dalla maggioranza di questo disco perché la chitarra viene sottomessa ad una serie di processi che la trasformano nella seconda parte facendola diventare eterea. Questa acqua scorre limpida, ancora una volta pura, quale tesoro ormai nascosto. Perché nel nostro mondo sembrano essere questi i tesori, la purezza, gli spazi vergini ed incontaminati. Ecco, questa canzone sembra narrarci tutto ciò, sembra essere l'emozione di fronte a qualcosa di così buono da non dimenticarselo mai. Anni fa andavo in campeggio e camminavo moltissimo. In queste escursioni assaggiare l'acqua che spontanea s'insinuava vicino ai sentieri era un'emozione unica. Non si trattava soltanto di saziare la sete ma di voler fissare nella mente quel sapore, sapore di acqua di montagna, di acqua incontaminata. Questa canzone mi ha restituito quella sensazione. 



Prezioso è questo Feu Clair/Dix Mille Yeux. Prezioso nella sua onestà, prezioso nelle sue imperfezioni, prezioso nella sua emotività. Provate ad essere trasportati dalle sue note, provate a lasciarvi guidare nei mondi che sono passati d'avanti agli occhi di Ueno Park, provate a perdervi in quei mondi e poi uscite. Uscite a camminare senza meta alcuna, uscite a respirare, uscite a fissare nella vostra mente i dettagli che vi sono sempre sfuggiti ma che erano sempre lì urlandovi: "guardami!". Uscite ad innamorarvi e poi, quando tornerete, sarete migliori.

Voto 9/10
Ueno Park - Feu Clair/Dix Mille Yeux
Atypeek Music
Uscita 07.07.2017

Pagina Facebook Ueno Park
Pagina Soundcloud Manuel Adnot

mercoledì 5 luglio 2017

SEER - Vol. III & IV:Cult of the Void: dal macro al micro, questa è la vita

(Recensione di Vol. III & IV: Cult of the Void dei SEER)


Forse una delle fonti d'ispirazione più importanti nella storia dell'arte è la natura. Quanti capolavori sono stati dipinti cercando di riprodurre o d'interpretare un paesaggio che s'insinuava di fronte agli occhi? Quante odi cantavano alla magnificenza di un evento naturale? E quante canzoni hanno riprodotto le emozioni che si provano di fronte alla bellezza infinita del nostro mondo? Come sempre è importante ricordare che facciamo parte della natura e dobbiamo rispettarla capendo qual è il nostro ruolo come parte di essa.

Ho parlato della natura perché è proprio lei a essere grande protagonista del disco che vado ad illustrarvi quest'oggi. Si tratta del secondo lavoro dei canadesi SEER ed ha per titolo Vol. III & IV: Cult of the Void. Come indica il suo nome questo disco dovrebbe essere la continuazione del primo lavoro della band, ma più che percorrere lo stesso sentiero quello che vediamo qua è un cambio di rotta ampliando tutti gli spazi della band. Tradotto in altre parole questo nuovo disco ci presenta un gruppo che ha cambiato pelle, senza per quello abbandonare del tutto quello che ha fatto in precedenza, per riuscir ad esprimere meglio le proprie idee ed i propri concetti musicali. Per quello questo disco presenta l'utilizzo molto presente di voci pulite e di un approccio più melodico con rispetto al lavoro precedente. Verrebbe facile pensare, come si fa molto spesso, che la band abbia ceduto a percorrere una strada molto più semplice, fatta di un linguaggio molto più semplice e dunque alla portata di tutti. Nulla più sbagliato. La nuova direzione dei SEER risponde alla voglia di esprimere al meglio il loro disco. Questo è un disco che sa di boschi, di fiumi, del crepitare del fuoco, dell'odore della terra umida, dei raggi di sole a prima mattina che piano piano svegliano il mondo.

Vol III & IV: Cult of the Void

Il punto di partenza con il quale i SEER si era presentato in società era un doom metal misto ad uno sludge metal. Questo binomio non scompare affatto in questo Vol. III & IV: Cult of the Void ma viene messo a pari livello di quello che possiamo chiamare un goth metal, cioè un metal con una fortissima componente oscura ma relativamente più diretto e vicino ad una concezione più rock. Anzi, aggiungerei che questo disco ha molti elementi che ci riportano indietro agli anni 90. Ma ci sono anche altre caratteristiche che bisogna assolutamente sottolineare in questo lavoro. Per esempio la coabitazione dell'elettrico con l'acustico. Per quello la prima parte di questo disco ci regala una serie di canzoni grintose, molto dirette, sempre piene di quell'oscurità molto ben concepita. Invece la seconda parte abbraccia dei suoni acustici dove l'intimità diventa protagonista. Ed è proprio questa coabitazione a fare di questo disco un lavoro molto completo. Come capita in molti casi l'esistenza di una delle parti esalta l'altra, e viceversa. La parte elettrica diventa ancora più diretta e grintosa, quella acustica sa invece d'introspezione e di luce tenue. Passiamo dal macro al micro, dal fascino di una montagna alla complessità di un microrganismo. Passiamo al fascino di perderci guardando le stelle a pensare a noi stessi, piccoli granelli di un insieme molto più importante.

Ecco, credo che il punto perfetto per capire questo disco stia nell'idea di macro e micro e nel labirinto pazzesco che nasce pensando al vuoto. Sono due concetti molto diversi e cercherò di spiegare meglio la mia tesi. Il vuoto è un concetto così difficile da spiegare che pensare proprio ad avere un culto verso di lui è una provocazione strutturale che può stuzzicare tante riflessioni filosofiche. Ma forse è proprio in mezzo a questo vuoto che si capisce che tutto e nulla ha senso. In altre parole, siamo dei leggerissimi granelli di sabbia e la nostra esistenza individuale sembra non significare nulla di fronte alla grandezza dell'universo, ma nello stesso tempo io mi ritrovo a scrivere le mie riflessioni venute fuori dall'ascolto del disco di cinque ragazzi canadesi, e tu, lettore, completi questo cerchio. Ecco, sicuramente questo processo non cambierà il destino del nostro mondo ma abbiamo stabilito una serie d'interazioni che non devono assolutamente sottovalutate. Questo è quello mi ha provocato questo Vol. III & IV: Cult of the Void dei SEER.

SEER

Vi ho parlato di due parti molto diverse di questo lavoro, di quella macro e di quella micro. Scelgo un brano per parte per spiegarvi cosa intendo.
Per la parte macro scelgo They Used Dark Forces. Credo che il titolo sia già molto chiaro. Siamo di fronte ad un brano che non scende a compromessi. Un brano sludge che prende quella  forza scriteriata delle opere di quel genere ma la sua intenzione è anche quella di guidarci attraverso bui sentieri che sono quel che siamo e quello che è la grandezza del nostro mondo. 
Per la parte acustica scelgo il brano che chiude questo lavoro, dal curioso titolo di संसार, termine hindi che indica il Samsara, cioè il ciclo infinito della vita. E' un brano bellissimo che da perfettamente l'idea di nascita, morte e rinascita. Perfetta chiusura del disco che ancora una volta dimostra che anche con sonorità acustiche è possibile toccare altissime vette sonore.



Vol III & IV: Cult of the Void è un disco molto completo, un lavoro che nasce con grande potenza per poi addentrarsi nell'anima di ciascuno. E' il nulla ma anche il tutto. E' il vuoto ma è anche la capacità di dare un senso ad ogni singola esistenza. Per quello ben venga l'evoluzione sonora dei SEER.

Voto 8/10
SEER - Vol III & IV: Cult of the Void
Art of Propaganda
Uscita 07.07.2017

martedì 4 luglio 2017

Intervista a Telepathy: l'umiltà di essere una cosa sola con la folla

(Intervista a Telepathy)


Dopo aver apprezzato il loro disco Tempest era quasi un dovere conoscere più approfonditamente i Telepathy. La mia recensione di questo disco la trovate qui.Invece qua sotto trovate le loro interessanti risposte alle mie domande. Buona lettura!

Tempest


● (Lettere Dall’Underground) Ciao ragazzi, è un piacere parlare con voi. Approfondiamo Tempest. Possiamo dire che ciascuno di noi ha una tempest all’interno? 
(Telepathy) Assolutamente sì, il concetto del nuovo album è nato da un momento turbolento delle nostre vite e abbiamo dovuto regolarci con un sacco di tematiche che erano prevalenti per noi in quel periodo. Dunque sì, possiamo prendere il concetto metaforicamente o letteralmente.

 (LDU) Mi piace un sacco che avete costruito delle storie senza utilizzare le parole, e penso che ogni persona che ascolterà Tempest sarà in grado di vedere chiaramente qual è stata la vostra intenzione, pertanto la mia domanda è: avete pensato prima all’idea di quello che volevate raccontare o la musica è stata la prima cosa? 
(T) La musica è venuta fuori per prima. Dopo che abbiamo scritto le prime due canzoni siamo riusciti a vedere la storia che stava venendo fuori dalla musica. Da quel punto abbiamo strutturato l’album per farlo calzare nella narrazione.
Tempest

 ● (LDU) Un’altra cosa grandiosa della vostra musica è che non avete limiti. Suonate tranquillamente post metal, doom, sludge, post rock. Quanto è importante non avere limiti quando componete?
(T) È la cosa più importante per noi, non vogliamo essere socchiusi in un genere o formula. Essere catalogati in un certo genere è qualcosa che c’interessa ben poco, preferiamo seguire I nostri istinti e scolpire la nostra propria strada. 

 (LDU) Di recente avete suonato al Roadburn Fest. Com’è andata?
(T) Il Roadburn Festival è stata un’esperienza incredibile ed è stato un piacere assoluto aver concluso il nostro tour lì. Tutto quel che posso dire è che tutte le cose positive che puoi avere sentito sono vere, è un festival dove tutta la gente interessata nella musica di mentalità avanguardista dovrebbe essere presente.

 ● (LDU) Avete mai pensato di aggiungere delle voci alle vostre canzoni? 
(T) Certo, con Echo of Souls del Nuovo album, sapevamo che era il punto perfetto del disco e il momento giusto per la band di aggiungere voce alla nostra musica. Non utilizzeremmo mai delle voci per il semplice piacere di aggiungerle, soltanto quando possono aggiungere qualcosa alla musica e sempre come se fosse un nuovo strumento.

 ● (LDU) Cosa vi aspettate dal vostro pubblico? 
(T) Nulla in assoluto, sappiamo di essere dei previlegiati del fatto che ci sia gente come te che sia interessata nella band e nella musica che facciamo. Siamo incredibilmente gratti di poter suonare questa musica per gente che si trova molto lontano dalla nostra casa e di avere un pubblico globale che segue tutto quello che facciamo. Vogliamo soltanto condividere un’esperienza con altra gente augurandoci che provino qualche piacere con quello che sappiamo fare.

• (LDU) Parlando da musicisti, qual è il concerto perfetto? 
(T) Quando la folla e la band diventano una cosa sola, e tutti quanti si perdono nella musica. 

● (LDU) Qual è la cosa più strana che avete mai visutto suonando la vostra musica? 
(T) Tantissime! Onestamente condividere un concerto ed il backstage con Scott Kelly dei Neurosis, Chelsea Wolfe e John Baizley è stato molto surreale per noi come band. Guidare attraverso le montagne della Repubblica Ceca e suonare in un Vecchio orfanatrofio nel nostro primo tour europeo è stato molto strano! 

 ● (LDU) Grazie mille! Mi auguro di vedervi dal vivo molto presto! 
(T) Grazie per il tuo interesse e per il tuo tempo, ci auguriamo che stiate godendovi il nuovo album!
(Lettere Dall’Undergound) Hi guys, it’s a pleasure to talk with you. Let’s talk about Tempest. Can we say that each one have a tempest inside? 
(Telepathy) Definitely, the concept of the new album was born from a turbulent time in our lives and deals with a lot of themes that were prevalent for us at the time. So yes, you could take the concept metaphorically or literally

 ● (LDU) I like a lot that you have built a story without works, and I think that every person that listen to Tempest is able to see clearly what was your intention, so have you first talk about the idea of what do you wish to tell or music came first? 
(T) The music definitely came first. After we had written the first two songs we could all see the story that was emerging from the music. From there, we structured the album to fit the narrative. 

 ● (LDU) Another great thing of your music is the fact that you have no limits. You play easily post metal, doom, sludge, post rock. How much important is to don’t have limits when you write music? 
(T) It is the most important thing for us, we don’t want to be restricted to one style or formula. Being pigeonholed into a certain genre is something we have very little interest in, we would rather follow our instincts and carve our own path

 ● (LDU) You have recently play at Roadburn Fest. How was it? 
(T) Roadburn Festival was an amzing experience and it was an absolute pleasure to end our tour there. All i can say is all the positive things you have heard are true, and it’s a festival that anyone with an interest in forward thinking music should attend.

 ● (LDU) Have you ever think to put voices on your songs?
(T) For sure, with Echo of Souls on the new album, we knew it was perfect point of the album and time for our band to introduce vocals into the music. We will never use vocals for the sake of it, only when they can add something to the music and always as another instrument

 ● (LDU) What do you expect from your audience? 
(T) Absolutely nothing, we know that we are very privileged to have people such as yourself who are interested in the band and the music we make. We’re incredibly grateful to be able to play this music for people far away from home and to have an audience around the world who dig what we do. We just want to share an experience with people and hope they take some pleasure in what we do. 

 ● (LDU) Like a musician what it’s the perfect concert? 
(T) When the crowd and band become one, and everyone loses themselves to the music.

Tempest


 ● (LDU) What is the strangest thing you have lived playing your music? 
(T) So many! Honestly, sharing a bill and backstage with Scott Kelly from Neurosis, Chelsea Wolfe and John Baizley was pretty surreal for us as a band. Driving through the Czech mountains and playing an old orphanage on our first European tour was pretty strange! 

 ● (LDU) What do you think about Italy? Have you the idea to come there to do some concerts? 
(T) We would love to play some shows in Italy, hopefully we can make that happen in the near future!

● (LDU) Thank you so much! Hope to see you on stage very soon! 
 (T) Thank you for your interest and time, we hope you’re all digging the new album!