domenica 31 luglio 2016

Il regalo dei Sepultura

Il cielo era di un blu intesso ed omogeneo. Il sole batteva fortemente senza che ci fosse la speranza del passaggio di qualche nuvola a dare un po' di tregua. 
Il ragazzo si sentiva ancora un po' stanco. Il giorno prima si era alzato, insieme a suo padre, alle 4 del mattino ed erano saliti fino a 4320 metri sul livello del mare per godersi lo spettacolo dei Geyser del Tatio, che puntualmente, all'alba, raggiungevano la maggiore attività.
Avevano d'avanti una bella manciata di chilometri che gli avrebbe portato dal cuore dell'altipiano degli Andes all'oceano Pacifico.
Prima di partire avevano preso certi accordi e uno di questi era riferito alla musica. A turni ognuno avrebbe messo una cassetta nello stereo senza dover, per forza, consultarsi con l'altro. Appena avesse finito una cassetta l'altro avrebbe avuto modo di scegliere la propria musica da ascoltare. Anche se le selezioni erano molto diverse entrambi tolleravano di buon modo le scelte dell'altro.



Si sa, i viaggi non si basano soltanto sulle mete da raggiungere ma tutto quello che c'è in mezzo, e soprattutto la strada, costituiscono aspetti essenziali che donano un ricordo indelebile. Questa sensazione veniva moltiplicata ancora di più in mezzo al deserto di Atacama, quello più arido al mondo. L'immensità di pietra e terra di un prevalente colore marrone urtava violentemente col blu del cielo. Le strade si districavano come serpenti infiniti in cerca di qualche preda. Ad accompagnare quel paesaggio ipnotico ci pensava la musica, che aveva la capacità di regalare sensazioni uniche che si abbinavano, in modo naturale, con quello che vedevano gli occhi.
A quell'epoca fare autostop era normale, era un modo di locomozione valido come tanti altri e padre e figlio spesso e volentieri caricano in macchina chi cercava dei passaggi. Anche quello faceva parte del viaggio. C'erano passeggeri chiacchieroni che non si limitavano proprio se si trattava di raccontare tutta la propria vita. Ce n'erano altri, invece, che facevano grande economia di parole dando soltanto le informazioni principali per poi cadere in un mutismo impiegabile. Per tutti, però, c'era un'imposizione. Dovevano subirsi le scelte musicali.
Il ragazzo aveva scelto una selezione che si muoveva solo in mezzo alle acque del metal. Pantera, Iron Maiden, Sepultura, Dream Theater, Metallica e Megadeth. Questo era il menu che trovavano i passeggeri spontanei.
Dopo qualche minuto di viaggio, avendo abbandonato la città di San Pedro de Atacama, la macchina costeggiò un'altra città chiamata Calama, una città brutta nata non per le particolari caratteristiche geografiche ma bensì per la ricchezza  che significava avere una delle miniere di rame più importanti al mondo, quella di Chuquicamata. Appena usciti dalla città in veloce successione tre persone ai bordi della strada alzavano il pollice chiedendo un passaggio. Da più di qualche minuto suonava The Roots of Sepultura, una raccolta speciale di b-sides, cover e registrazioni dal vivo. 
Dopo che i primi due posti liberi avessero avuto un occupante occasionale il padre si fermò una terza volta. Già in lontananza la divisa verde militare, troppo pesante per il caldo che faceva, faceva intuire che la persona col pollice alzato era un carabiniere. Dopo essersi accostato il padre chiese al uomo in divisi dove andasse, e visto che era la stessa strada da percorrere lo fece salire in macchina.
Sebbene erano passati già diversi anni da quando il dettatore Pinochet si era visto in obbligo di convocare elezioni democratiche, lo stesso il corpo dei carabinieri era ancora visto molto male. Insieme all'esercito avevano partecipato a fermare, torturare, uccidere ed esiliare tutti quei cileni con un attivismo politico opposto a quello del tirano. Non solo, ma negli anni successivi i carabinieri erano associati ai camion con gli idranti, popolarmente chiamati guanacos, al lancio di gas lacrimogeni, da dei pick-up che venivano chiamati zorros, e dalle cariche contro tutti i manifestanti che chiedessero il ritorno della democrazia.
Il compagno di stanza del padre del ragazzo figurava nell'elenco dei desaparecidos e in quella macchina, in quel momento, ad una fila di sedili sedeva un rappresentante di quel corpo istituzionale che aveva perso la lucidità.
Il ragazzo era turbato. Pensava a quel concerto, il primo in Santiago del Cile dopo un sacco di anni, del famoso gruppo di rock andino chiamato Los Jaivas. Pensava a come, quella sera, mentre stava in fila coi genitori e suo fratello minore i carabinieri, senza motivo, avevano iniziato a spruzzare acqua su tutti. Pensava a come, sotto richiesta della madre, se ne erano andati via prima che finisse il concerto perché da fuori dello stadio iniziava ad arrivare la puzza irritante del gas lacrimogeno.



Per distogliere la mente da questi pensieri si concentrò sulla musica, alzò leggermente il volume, e dopo qualche minuto iniziò a suonare la tredicesima traccia del secondo disco: Anti - Cop. Max Cavalera cantava con rabia: "Police sucks/Fucking fags/(...)/I hate cops/Shits for brains/Stick your gun/Up your fucking ass!!!". Il ragazzo sorrise e con cautela guardò dallo specchietto. Il carabiniere sembrava di ghiaccio ma non aveva proprio capito quelle parole che sicuramente l'avrebbero imbarazzato.
Così, in mezzo a quel deserto, il sole, la terra, la strada, la divisa e i Sepultura misero in piedi un copione geniale mentre la macchina percorreva chilometri e chilometri. Il carabiniere scese quando la macchina raggiunse la sua destinazione. Ringraziò con enfasi e se ne andò, senza sapere che le parole che aveva sentito prima erano forti e dirette. Non capiva l'inglese. Forse tanti dei suoi colleghi non avevano capito le idee di quei uomini che venivano picchiati fino alla morte e avrebbero dovuto fare come quel carabiniere che di fronte al ignoranza aveva continuato con la sua vita rispettando quella degli altri. 

mercoledì 27 luglio 2016

Dischi d'ascoltare (almeno) una volta nella vita: Discipline dei King Crimson

(Recensione di Discipline dei King Crimson)


La vita è piena di misteri. Forse il grande senso della nostra vita è cercare di dare risposta a queste grandi domande. Uno dei quesiti più importanti è quello della vita dopo la morte. Esisterà veramente? Sarà l'ora di presentarsi d'avanti ad una divinità ed essere giudicati per quello che abbiamo combinato nella nostra vita terrestre? Ci sarà un paradiso che ci aspetta? Siamo destinati a reincarnarci ed iniziare ancora una volta questo ciclo infinito? O ci sarà il vuoto infinito ad accoglierci? Io non ho le risposte e dubito di riuscir a diventare così illuminato da poter mettere fine ad una questione grande quanto l'esistenza dell'essere umano.




La musica, per me, è un riflesso della vita. Per quello è così favolosa ed essenziale. Tutto quello che facciamo può aver una traduzione in formato canzone. Passiamo attraverso la vita essendo collezionisti, più o meno consapevoli, della nostra personale soundtrack. I King Crimson sono parte fondamentale della mia compilation di vita e grazie a loro il concetto di "reincarnazione" è forte e chiaro. Perché? Perché i King Crimson sono morti tante volte e si sono reinventati più forti di prima, con una pelle nuova, con una personalità che ha sempre mantenuto dei tratti caratteristici rimasti invariati ma con tante altre nuove cose. Il colpevole è quel genio maledetto chiamato Robert Fripp, tanto insopportabile quanto geniale, la definizione perfetta del eclettismo. Per gli storici, al giorno d'oggi possiamo parlare di sei vite, o tappe, della band. Sei periodi che si differenziano per via di certi aspetti che non si ritrovano più né nei periodi precedenti, né in quelli successivi. Oggi parliamo del terzo periodo, quello degli anni 80 e del primo lavoro di quei anni: quel monumento sonoro chiamato Discipline.

Erano passati sette anni dallo scioglimento del gruppo, avvenuto dopo la pubblicazione di un altro LP meraviglioso: Red. Il passaggio di decade fu molto importante perché molte cose erano cambiate. La musica si evolveva di giorno in giorno regalando nuovi generi che iniziavano ad aggiungere il prefisso post. Sicuramente Fripp aveva intenzione di regalare la sua propria interpretazione di questi cambiamenti reclutando tre musicisti adunati dalla modernità come filosofia di vita. Adrian Belew, Bill Bruford, unico superstiti della "vita precedente", e Tony Levin non erano soltanto dei virtuosi ma regalavano la possibilità di essere un passo in avanti a tutto quello che si ascoltava all'epoca. Discipline doveva essere il nome del gruppo ma, sicuramente, lo spirito che veniva fuori dal lavoro d'insieme avrà convinto Fripp a rivivere la sua creatura eccelsa. Questi nuovi King Crimson erano molto più sintetici di tutti quelli precedenti, erano molto meno epici, molto meno classici e traducevano il concetto di complessità in un modo diverso da quello che conoscevamo. Non più l'estrema durata di brani epici ma una concentrazione di note, ritmi, armonia, dissonanze brutali e diretti. 




Discipline è un disco di contrasti. E' la lotta tra disciplina ed indisciplina. Tra l'individuo e la società. Tra la ragione e la pazzia. E' un disco urbano che puzza di fumo da scarico, che ha le luci di stradine mal illuminate di quartieri malfamati e dei neon di quei uffici pieni di lavoratori con postazioni di due metri quadri. Ma la magia sta nel contrasto con questi input negativi, perché Discipline è anche un disco spirituale, di distacco dalla routine, di osservazione e di riflessione. E' bello come un film capolavoro, è ipnotico come il fuoco ed è passionale come un viaggio intorno al mondo.

Musicalmente è la prima volta che la band conta con due chitarre ma la capacità della band è così eccelsa che in realtà sembrano due strumenti assolutamente diversi. Belew è l'aspetto terreno, è la ritmica giusta, anche se spesso molto complessa, è la base che si unisce perfettamente al tandem basso-batteria, anche se chiamarlo così è molto riduttivo come vedremo di seguito. Fripp è lo spirito, è la genialità, è la sperimentazione messa al servizio della musica, è la sonorità che nessuno si aspetta in una chitarra, è la tecnica messa a disposizione dell'emotività. 
Dicevamo prima che il reparto ritmico merita un approfondimento maggiore. 
In quei anni Bruford descrisse la sua personale percezione della musica spiegando che lui suonava soltanto se qualcosa lo motivava veramente, altrimenti stava in silenzio. Una volta dentro ad un brano lui cercava di rendere più dinamico il movimento della musica apportando elementi che obbligassero gli altri musicisti a cambiare, ad aggiungere. In questo disco questa filosofia non è applicata fino in fondo ma quella volontà di essere tutto tranne banale è onnipresente. Sia con la batteria, acustica o elettrica che sia, sia con le percussioni Bruford è un mostro che riesce a tradurre in ritmo quello che Fripp fa con la chitarra.
Levin ha una capacità unica, cioè quella di sembrare simultaneamente strano a tutto e in perfetta comunione con qualsiasi strumento. Sia col basso che con il Chapman Stick viaggia sulle le acque, che vengono agitate dagli altri tre musicisti, senza mai rischiare di affondare. Non solo non affonda ma riesce a navigare con una sicurezza impressionante. Le sue linee sono fondamentali perché sorreggono tutto, perché sono il collante che regala un insieme senza uguali.
Ultima nota doverosa, la voce di Belew è perfetta, limpidissima e versatile, sempre pronta ad adattarsi al mood delle canzoni.




Per chi non ha mai ascoltato questo capolavoro bisogna dire che Discipline è un compendio di emozioni, di momenti forti e di tranquillità. Brani come Elephant Talk o Indiscipline sono potenti, rumorosi, diretti. Invece Matte Kudasai  o The Sheltering Sky regalano una tranquillità mista a nostalgia, nel primo caso, ed ipnotica nel secondo.

Sono passati ben 35 anni dalla pubblicazione di questa meraviglia e l'indicativo migliore che possiamo utilizzare, per farvi capire la portata di questo lavoro, è l'attualità del suo sound e la coerenza stilistica assolutamente applicabile ai nostri tempi. La domanda è: ma i tempi sono rimasti invariati o i King Crimson erano così avanti da costruire un disco che perfettamente potrebbe essere uscito in questi ultimi giorni? Per me la risposta è la seconda, ma non solo, Discipline continuerà per anni ed anni a suonare più attuale di tanti altri gruppi del futuro.
A questo punto rimane soltanto da dire grazie, a Robert Fripp e alle reincarnazioni. 

Voto 10/10
King Crimson - Discipline
Warner Bros. Records
Uscita 22.09.1981

Profilo Ufficiale King Crimson DGM
Pagina Facebook King Crimson

lunedì 25 luglio 2016

L'oracolo dell'underground: le prossime uscite.

Questo 2016 è stato un anno abbastanza contraddittorio. Ci ha portato via grandi artisti che hanno lasciato un vuoto difficile da colmare, ma ci ha regalato dei dischi molto interessanti, che, purtroppo, devono muoversi nell'ombra perché non trovano spazio nel mainstream. I futuri cinque mesi si prospettano molto ricchi perché diversi gruppi hanno confermato le date di uscita dei loro prossimi lavori ed altri sono in fase di registrazione e produzione.
Facciamo il punto della situazione.

Iniziamo, però, con l'ennesimo caso di rumor che non trova conferma. Pochi giorni fa si era sparsa fortemente la voce che delineava LP che dovrebbe mettere fine ai 10 anni d'attesa per sentire qualcosa di nuovo da parte dei Tool. Queste voci parlavano di un lavoro mastodontico di più di due ore con brani che superavano i dodici minuti. Anche se non c'è stata una smentita ufficiale del gruppo un tweet di Maynard James Keenan, che rispondeva ad un fan che aveva diffuso la notizia del nuovo disco chiamandolo "idiota", ha spento tutto l'entusiasmo. Parlando dei Tool, però, tutto diventa imprevedibile e, dunque, ci potrebbe essere la sorpresa di questo attesissimo nuovo disco. Nel frattempo vi proponiamo di leggere la nostra review di Ænima cliccando quiPassiamo al tangibile.



Il 2 Settembre vedrà la luce il nuovo lavoro di Devin Townsend Project che s'intitolerà Transcendence. Lo stesso Townsend ha parlato di questo disco come di un'estensione di quello che è il suo mondo. Si sa, anche, che ci sarà Steve Vai come ospite.



Sarà, invece il 30 di questo stesso mese il turno degli Opeth con il loro Sorceress, dodicesimo album di studio della band svedese. Possiamo azzardare dicendo che si tratterà di un disco più pesante del precedente, Pale Communion, conservando tutti i tratti caratteristici della band, che vi abbiamo descritto nella nostra recensione di Deliverance da leggere qui.



Parlando del dodicesimo disco di studio è da registrare il ritorno dei Korn che il prossimo 21 Ottobre pubblicheranno The Serenity of Suffering, anticipato dal primo singolo, Rotting in Vain, uscito il 22 Luglio e che vede come guess star Tommy Flanagan del famoso telefilm Sons of Anarchy. Tra l'altro questo nuovo lavoro conterà con la presenza di Corey Taylor degli Slipknot.

Sempre per il 21 Ottobre è prevista l'uscita di una compilation di tutti i brani strumentali più diversi bonus track e materiale inedito dei Riverside. Sarà un disco doppio che s'intitolerà Eye of the Soundscape (EOTS) e che raccoglierà diverse chicche registrate con il chitarrista  Piotr Grudziński, scomparso prematuramente ad inizio anno.

In campo italiano, invece, c'è da indicare l'uscita del nuovo lavoro dei Litfiba, previsto per l'11 Novembre. Non si conosce ancora il titolo o l'artwork, ma stando a quello che hanno detto Piero Pelù e Ghigo Renzulli  sarà un lavoro molto energico. In sede di registrazione c'è stato spazio per il Conte Aiazzi, tastierista dei primi dischi della band fiorentina. 

Per finire una carrellata di altre uscite che ancora non hanno data confermata. In questi mesi dovrebbero esserci delle novità discografiche per i Soen, attualmente in studio di registrazione, per i blindead che stanno remixando il nuovo lavoro, per i Pain of Salvation, che hanno pubblicato il loro remix di Remedy Lane poche settimane fa e che abbiamo recensito. Potete leggere cliccando qua. Questo nuovo disco dovrebbe uscire verso fine anno e si chiamerà In the Passing Light of Day. Ultima segnalazione molto gradita. Dopo il debutto discografico con l'EP Can't you Wait, che vi abbiamo descritto qua, l'islandese GlerAkur tornerà a deliziarci col suo primo LP, la cui uscita è prevista per l'autunno. 

Insomma, prepariamo le orecchie perché stimoli non mancheranno. 

sabato 23 luglio 2016

1476 - Wildwood/The Nightside: Quell'infinita voglia di libertà

(Recensione di Wildwood/The Nightside dei 1476)

Il 1476 non è stato un anno particolarmente importante. Qualche re spagnolo si è insediato sul trono, sono nate le suore dell'Ordine di Sant'Ambrogio, è stata introdotta la stampa in Inghilterra e il Duca di Milano è stato assassinato. Qualche personaggio storico è nato e qualcun altro è morto. Oltre a quello l'unico aspetto interessante che possiamo sottolineare è che è stato un anno bisestile come questo 2016. 




Non siamo impazziti dandoci alla storia invece di continuar a parlare di musica. No, quest'introduzione è doverosa perché oggi parliamo di un gruppo che ha scelto proprio quell'anno come nome. 1476 è un duo statunitense che nasce nell'Art Rock ma che, come vedremo in continuazione, si sposta su una serie di generi che tingono di nero le loro canzoni. Ma torniamo alla scelta del nome e a quei anni. 16 anni dopo l'America sarebbe stata "scoperta" aprendo di fatto una nuova epoca storica fatta di conquiste, di saccheggi e di scontro tra europei e le civiltà native del continente americano. Quel secolo da il passaggio dal Medioevo al Rinascimento ed è facile immaginare che la voglia di scoperte e di piccole grandi rivoluzioni era palpabile in una popolazione ancora sottomessa ai grandi poteri nobili. Sarà stato un grande shock tra l'ansia di libertà e la ferita, ancora aperta del sentirsi inferiori a quelli "prescelti da Dio". L'aspetto interessante è che questa contrapposizione di parti è anche presente nelle 15 tracce di questo lavoro, che s'intitola Wildwood/The Nightside. Dobbiamo indicare subito che il disco che ci è giunto tra le mani è il lancio mondiale di due dischi precedentemente auto prodotti nel 2012. Infatti i 1476 sono stati fino ad adesso un gruppo veramente underground perché sono sempre stati alla larga di case discografiche e da una visibilità maggiore. E' stata la tedesca Prophecy Productions a convincere la band a editare e distribuire questo disco. Per fortuna hanno accettato.

Wildwood/The Nightside è un lavoro molto originale e versatile che esalta le capacità dei due musicisti che conformano questo progetto, Robb Kavjian e Neil DeRosa. Infatti le composizioni non disdegnano la ricchezza di utilizzare molte tracce aggiungendo, all'occorrenza, strumenti che aiutino a creare le atmosfere cupe che il gruppo cerca di trasmettere. Loro vengono dal New England ed è facile immaginare con la loro musica quei paesaggi caratteristici di quella regione fatta di boschi e strade che salgono e scendono capricciosamente in mezzo alla nebbia invernale. Quest'imponente natura è onnipresente nei brani della band. E' una musica "legnosa" che nasce sempre da una matrice acustica di chitarra e batteria sopra la quale si aggiungono altri elementi. E' proprio quella aggiunta quella che da una tremenda originalità al gruppo, perché grazie a lei passa da essere un gruppo New Folk ad addentrarsi nelle acque del Dark Indie Rock, del Metal, della Dark New Wave, dell'Art Rock e del Post Rock. Le canzoni sono sorprendenti perché non rispondono ad un unico dettame e certe parti creano grande stupore. 




Non è, soltanto, la parte musicale, intessa come generi, quella che spicca in questo lavoro. Come abbiamo detto la musica dei 1476 è molto essenziale, è un riflesso della terra nella quale sono nati, ma improvvisamente si tinge di futurismo, si "europeizza". In diversi punti del disco una voce femminile fa le vesti di narratrice, ricordando dei lavori che confinano con lo Space Rock o il Psych Rock. Le canzoni si discostano dalla struttura più convenzionale per diventare ambient. Sono tutti questi elementi quelli che regalano la gioia di scoprire un gruppo fortemente originale che fa venire in mente un elenco infinito di paragoni che dopo pochi minuti si spengono. La loro musica è libera di limitazioni, spazia tra svariate sonorità senza essere, però, sconnessa. 

Vi consigliamo vivamente due tracce. Good Morning, Black Bird è la prima. Un brano sorprendente che ricorda a tratti la dark wave alla Cult o Morrissey per poi abbracciare un intermezzo strumentale che profuma di Anathema o Antimatter. Il secondo brano è quello di chiusura del primo cd e s'intitola The Golden Alchemy. E' la canzone più lunga del lavoro e non ha nulla a che fare col brano che vi abbiamo segnalato prima. Questa è una canzone ipnotica, futuristica, che passeggia senza problemi tra il post rock e il post metal. E' maestosa ed intensa.




E' una fortuna venir a conoscenza di gruppi come i 1476 perché la sfida di essere originali e coerenti non è sempre facile ma loro ci riescono in modo esemplare. Wildwood/The Nightside è un disco sorprendente dotato di una dinamicità che porta l'ascoltatore a seguire con attenzione lo svilupparsi del disco come quando si viene catturato da un film e non si può staccare gli occhi dallo schermo.

Voto 8,5/10
1476 Wildwood/The Nightside
Prophecy Productions
Uscita 22.07.2016

Sito Ufficiale 1476
Pagina Facebook 1476

giovedì 21 luglio 2016

Mistur - In Memoriam: la fede nel sognametal

(Recensione di In Memoriam dei Mistur)

Con la stessa vertiginosa velocità con la quale il nostro mondo si nutre di novità discografiche nascono tanti sub-generi che cercano d'inglobare in una definizione tutti gli elementi musicali di uno o più gruppi. In questa linea quest'oggi, per la prima volta, andiamo a parlarvi del sognametal. Definire questo sub-genere non è né facile né difficile ma il consiglio migliore è quello di ascoltare i gruppi che ne fanno parte. Quello che sicuramente possiamo dire è che i gruppi sognametal nascono dal black metal nordico e grazie alle "impurità" che vengono aggiunte si discostano dal genere "madre". 




Il disco che andiamo a recensire è il secondo lavoro dei norvegesi Mistur. Ha per titolo In Memoriam ed è un lavoro interessante e complesso. Il primo impatto potrebbe portar a pensare che si tratta di un LP "nostalgico" che ricorda i tempi d'oro di quel black metal norvegese che per anni dominò gran parte della scena metal. Se la lettura fosse quella sicuramente, per me, non avrebbe molto senso recensire queste tracce, perché se c'è qualcosa che mi irrita molto è l'assenza di novità e l'eccessiva voglia di emulare tempi e gruppi passati. In Memoriam per fortuna regala molti più elementi che catturano l'ascoltatore e lo portano a voler approfondire la conoscenza dei Mistur. Abbiamo detto che l'impronta più evidente è quella del black metal ma per gli stessi "fanatici", spesso fondamentalisti, del genere questo sarebbe un gruppo da denigrare. E sì, perché la porta della band è aperta a tutti gli elementi che possono aiutare ad elargire gli orizzonti musicali delle composizioni. Oltre a quell'atmosfera cupa i brani inclusi in questo lavoro regalano molti momenti che non disdegnano influenze progressive e momenti che melodicamente sono più accessibili. Le canzoni che compongono questo disco sono molto lunghe, oltre i sette minuti, ma hanno la capacità di non decadere, di avere un senso compiuto con una linearità spontanea. Ritmicamente certi passaggi sono deliziosi (l'introduzione di Firstborn Son e la conclusione di The Sight sono bei esempi).




In Memoriam è un disco che sarà divorato da chi ama le sonorità black metal degli anni 90 ma che non disdegna l'aggiunta di nuovi elementi che lo "ammorbidiscono" senza, però, stravolgerlo. Questo è un lavoro di grande epicità che si sente soprattutto nel riparto chitarristico e nelle tastiere.




L'augurio che possiamo fare è che, sia i Mistur che gli altri gruppi sognametal continuino a sviluppare questo sub-genere senza paura di esperimentare sempre di più. Così facendo i risultati saranno sorprendenti. 

Voto 7,5/10
Mistur - In Memoriam
Dark Essence Records
Uscita 29.04.2016

Sito Ufficiale Mistur
Pagina Facebook Mistur

martedì 19 luglio 2016

Dischi d'ascoltare (almeno) una volta nella vita: Deliverance degli Opeth

(Recensione di Deliverance degli Opeth)


Seppure la nostra società diventa sempre più globalizzata ed internet è alla portata di tutti, dovendo essere, in teoria, una finestra aperta a tutto, siamo sempre vittime di pregiudizi.
La musica è particolarmente un bersaglio di preconcetti sbagliati. Se ascolti reggae sei un fattone, se, invece, prediligi l'elettronica sei un impasticcato, e così via.
Ho visto presunti intellettuali storcere il naso appena sentivano la parola metal, come se il metal fosse una malattia contagiosa. Appena vedo gesti del genere capisco che bisogna stare alla larga da certe persone, perché dimostrano che, anche se si vantano di avere una cultura musicale invidiabile, sono degli ignoranti.
Il metal è troppo complesso e ricco come per essere inglobato in un unico insieme, e sono della ferma (pazza) idea che qualsiasi persona al mondo potrebbe ritrovare in qualche sub-genere la sua musica ideale. In questa stessa linea devo dire che certe cose metal non mi piacciono per niente. Trovo ridicoli i gruppi che emulano, per non dire copiano, la New Wave of British Heavy Metal, e andando a scovare tanti altri angoli di questo genere musicale ci sono tante altre sfumature che non trovano il mio consenso. Credo, fermamente, che bisogna far capire, una volta per tutte, che il metal non è cavalieri che lottano contro draghi o capelloni incazzati con le facce dipinte di bianco e nero. C'è quello ma anche un 80% di altre cose.



Questa premessa è perfetta per parlare del disco che oggi ho scelto. Lo è perché questo disco potrebbe essere un disco che per via della voce growl e di certi passaggi musicali potrebbe portare ad abbandonare il suo ascolto se chi è dall'altra parte non è un intenditore di metal. E sarebbe un peccato, perché andrebbe a perdersi dei brani di una bellezza unica. Brani che si costruiscono su degli equilibri molto precari. Brani che sanno di passato, di presente e di futuro.

Il disco da me scelto è Deliverance degli Opeth. Uscito nel 2002 rappresenta il momento di maggiore creatività della band svedese. Dalle sessioni di registrazioni non sono venute fuori soltanto le sei tracce che formano questo capolavoro ma, anche, altre otto che conformano Damnation, disco successivo della discografia del gruppo. Questo dettaglio non è minore perché ci potrebbe portare a chiederci come mai il risultato non sia stato un disco doppio ma due lavori usciti alla distanza di qualche mese. La risposta sta nel suono, nell'intenzione delle canzoni. Non sarebbe corretto dire che i due dischi sembrano suonati da due gruppi diversi perché l'impronta degli Opeth è sempre presente e si sente con chiarezza. Se Damnation è il disco più intimo dell'intera discografia della band di Mikael Åkerfeldt, Deliverance è, forse, quello più energico. Le due anime che vivono nella band sono riuscite a trovare due vie di fuga diverse invece di dover lottare tra di loro come era successo nei dischi precedenti e come accadrà in quelli successivi, anche se sappiamo, per chi conosce i dischi del gruppo, che negli ultimi tempi una delle due anime sembra aver avuto la meglio sull'altra.




Abbiamo detto che Deliverance è il punto più energico nella storia degli Opeth ma questo non significa affatto che sia un disco frenetico ed incontrollato. L'energia trasuda dall'intensità emotiva di tutto il disco. Sia che la musica si stia sviluppando su un ritmo martellante di batteria, sia che una base acustica accompagni la voce di Åkerfeldt la sensazione è sempre la stessa, questo disco non scende a compromessi ed arriva in blocco nella testa del ascoltatore. L'aspetto che fa la differenza tra questo lavoro e tanti altri sta nel modo nel quale si riesce a ricreare quest'energia. Sarebbe semplice rimanere inchiodati alle fondamenta del death metal e costruire dei riff di effetto su una base ritmica trascinante e sostenuta per incollarci sopra una voce growl. Deliverance invece va molto, ma molto oltre. Non c'è una sola traccia di quella banalità. I ritmi composti sono sorprendenti e la batteria di Martín López è un mosaico di versatilà. Il basso di Martín Méndez ricorda le pazzesche linee di Steve di Giorgio nei Death senza far ricorso ad un basso fretless. Le chitarre di Peter Lindgren e dello stesso Åkerfeldt sono potentissime e trovano un incastro perfetto.




Ascoltando il brano d'apertura, Wreath, si potrebbe pensare che gli Opeth giochino con poche arme ma bastano pochi secondi di Deliverance, seconda traccia del disco, per capire tutta la loro genialità. E' difficile trovare un brano più rappresentativo di quello che sa fare la band. Continui cambi emotivi fanno diventare questa canzone un racconto epico pieno di colpi di scena impensabili. La parte finale è patrimonio dell'umanità per via del incastro ritmico sorprendente, trascinante ed ipnotico. 
Dopo le quote emotive così alte c'è bisogno di calma e A Fair Judgement arriva in soccorso. Questo è il brano dove più si nota la mano del produttore, il grande Steven Wilson. Abbiamo parlato di calma, ma se questo significa pensare di ascoltare una ballata allora siete completamente fuori strada. Anche questa traccia è una montagna russa di suoni ed emozioni. Si sale gradualmente per poi scendere a picchiata per poi risalire, e così via. Nulla è prevedibile. E' un brano barocco e gotico allo stesso tempo. Una delizia. Troviamo, poi, un piccolo intervallo chiamato For Absent Friends che calma le acque prima di una nuova tempesta. 
Master's Apprentices inizia con la stessa energia della prima traccia del disco ma si evolve in parti acustiche con armonizzazioni vocali che danno un tocco di passato e che ricordano che il prog anni 70 è sempre stato un faro nella musica degli Opeth
Il disco si chiude con By the Pain I See in Others e di nuovo la strada scelta dal gruppo è tutto tranne che dritta. C'è un susseguirsi di parti diverse che potrebbero sembrare senza senso ma che nella logica di Åkerfeldt e compagni è perfetta ed è effettuata così bene che con naturalezza veniamo trasportarti da una parte all'altra.
Qualsiasi ascoltatore intelligente riconoscerebbe i pregi di quest'opera maestra. Il gioco d'intrecci, progressioni e cambiamenti sempre presenti fanno di questo disco la fotografia perfetta del contributo degli Opeth alla musica. Ci fanno capire che per creare bisogna rischiare, che il passato deve essere, per forza, presente nella musica, perché avere la presunzione di comporre partendo dal nulla è utopico e che, per far nascere nuova musica bisogna avere un bagagli pesante in modo di pescare nel momento giusto l'elemento giusto. Deliverance è il disco perfetto per spiegare cosa significa fare musica.

Voto 10/10
Opeth - Deliverance
Music for Nations
Uscita 12.11.2002

Sito Ufficiale Opeth
Pagina Facebook Opeth

domenica 17 luglio 2016

GlerAkur - Can't you Wait: L'aurora boreale su un campo di vetro

(Recensione di Can't you Wait di GlerAkur)


La capacità onirica della musica è uno dei punti di forza più encomiabili di tanti artisti. Molto spesso non c'è neanche bisogno di far riferimento alla voce e, soltanto, con gli strumenti si riesce a dipingere paesaggi, raccontare storie e far viaggiare la mente senza dover proprio muoversi. Se si trova l'ambiente e il momento giusto, sparare nelle orecchie certi dischi può dare spazio ad esperienze quasi mistiche che ci portano lontano e, allo stesso tempo, nel profondo di noi stessi. 

L'EP che recensiamo oggi ha quel potere. E' un lavoro che in realtà è una promessa, perché le tre tracce che compongono Can't you Wait, lavoro di esordio dell'islandese GlerAkur, sono poche e lasciano nell'ascoltatore l'urgenza di voler sentire altro e la curiosità di sapere che sentieri inesplorati si costruiranno nel lavoro di composizione di questo visionario. Premesse, tutte, che vengono illustrate in questo debutto che fa della varietà un caposaldo. Tutte e tre i brani sono diversi anche soltanto come struttura anche se vengono legati da una idea cosmica ed oscura.


    Picture by: Halldora Óla http://halldoraola.tumblr.com/


Ci raccontano che Elvar Geir Sævarsson, l'uomo dietro a GlerAkur, si dilettasse a comporre e registrare questi brani senza ambizioni particolari; e grazie all'insistenza degli amici si vide in obbligo di far conoscere le sue creazioni, prima attraverso una radio islandese, e successivamente con la pubblicazione di questo EP. Mai un'intermediazione del caso è stata più azzeccata. Sarebbe stato un vero peccato non aver avuto accesso a queste emozioni sonore intense che possono tradursi nel significato del nome artistico di Sævarsson. Gler sta per vetro ed Akur è un campo, cioè un campo di vetro dove riflessi, diffusioni, rifrazioni e diffrazioni ci incantano, ci confondono e ci regalano degli spettacoli unici. Questo è questo Can't you Wait, un gioco di luci naturali, un'aurora boreale lunga 23 minuti.




L'EP si apre con la title track, unico brano cantato, che ci permette d'iniziare a contestualizzare quello che stiamo ascoltando. La prima impressione è che questo è un lavoro drone che ricorda certe sfumature della musica di Chelsea Wolfe, mettendo insieme quelli elementi definiti come drone-metal-art-folk. C'è, anche un profumo, di new wave e post punk e rimane già molto chiaro che il lavoro di GlerAkur si basa sulla sovrapposizione di strati sonori. 
Tutto bene, interessante. Ed ecco che inizia la seconda traccia, Polycide, con un arpeggio squisito di chitarra pieno di delay che ricorda certi brani degli Anathema. Un cambio di rotta? Sì, ma lo sviluppo della canzone fa capire che non è quella la direzione. Piano piano che i secondi scorrono e nuovi strati appaiono, facendo scomparire gli altri, capiamo che siamo in mezzo ad un brano ambient che richiama la capacità evocativa dei Dead Can Dance, dei The Third and the Mortal di Painting on Glass (cosa curiosa, ritorna il concetto di "vetro") e degli ultimi Ulver. Chitarre acustiche, synth e in sottofondo chitarre distorte danzano con un unico scopo, quello di "dipingere" questo paesaggio complesso ed inesplorato. 
Ci siamo, parte l'ultima traccia, che ha per titolo Willocide, e le prime battute sono in linea con il brano che è appena finito. Ai due minuti e trenta, però, qualcosa cambia, entra in gioco un ritmo campionato che fa diventare questo brano un mantra. Ancora una volta il concetto di loop e di strati si esalta. Ogni aggiunta è perfetta, ogni svuotamento è doveroso. Siamo dentro ad una galleria della quale non si vede l'uscita ma siamo troppo affascinati per tornarci dietro. E facciamo bene ad andar avanti, perché quando i nostri occhi si abituano al buio vediamo disegni fluorescenti sulle pareti. Disegni che raccontano storie lontane. Ad un certo punto capiamo che l'uscita è vicina ed ecco che il brano esplode. Il ritmo di batteria diventa tribale, il basso distorto accentua i punti di forza e chitarre e synth si lasciano andare ad una progressione che si alza di frequenza gradualmente fino ad esplodere. Ecco che alla fine della galleria c'è quello che non ci saremmo mai aspettati, quel campo di vetro dove ogni luce diventa un materiale da prendere in mano. Ambient e drone alla Sunn O))) per regalarci il momento più alto del disco.



Can't you Wait è una meraviglia, è un regalo per tutti quelli che amano essere trasportati dalla musica, è un film che si sviluppa dentro alle nostre teste. E' un esordio che ci obbliga a chiedere di più. E' il biglietto di visita di un visionario. E' la bellezza dell'aurora boreale su questo campo di vetro.

Voto 9,5/10
GlerAkur - Can't you Wait
Prophecy Productions
Uscita 15.07.2016


venerdì 15 luglio 2016

Pain of Salvation - Remedy Lane Re:visited : Si può migliorare un capolavoro?

(Recensione di Remedy Lane Re:visited dei Pain of Salvation)


Gli elementi che vengono messi insieme quando si registra un disco sono sempre tanti e le variabili che s'intrecciano fanno la differenza tra un capolavoro ed un bel disco. Le scuole di pensiero che riguardano la registrazione sono tante e molto spesso differiscono di musicista in musicista. C'è chi ama la fedeltà assoluta e vuole che ogni disco suoni come quando i brani vengono suonati dal vivo. C'è, invece, chi trova nello studio di registrazione una nuova possibilità da far crescere i brani, di dare tutte le sfumature che può offrire il lavoro di un bravo tecnico del suono. Prendere posizione è un esercizio un po' inutile perché penso che la fedeltà di un lavoro dipenda dall'idea originale. Nelle mie esperienze di registrazione, che non sono tante, ho avuto a che fare con diverse filosofie ed i risultati finali non sempre mi hanno soddisfatto. 




Chissà che è passato per la testa dei Pain of Salvation quando hanno deciso di re-mixare il loro capolavoro assoluto. Quel Remedy Lane del 2002 che presentò a scala globale la band svedese che come caratteristica principale è riuscita a mettere insieme la progressività musicale con un'emotività cupa di una bellezza sconcertante. 
La risposta sembra venire fuori dal sodalizio tra il gruppo di Daniel Gildenlöw e l'ingegnere del suono Jens Bogren. Sodalizio nato dopo la pubblicazione di questo disco per interesse dello stesso Bogren. E' così che Gildenlöw, dopo un po' di tempo, ha deciso di affidargli il lavoro di remix del disco.

Il caso di Remedy Lane è particolare, perché in origine si trattava già di un disco che suonava molto bene. C'era un grandissimo equilibrio tra gli strumenti e la voce e, all'occorrenza, ogni membro trovava il suo momento di protagonismo. Stiamo, tra l'altro, parlando di un disco "vecchio" di 14 anni e anche se la tecnologia ha dato dei passi in avanti non si può dire che ci sia stata una rivoluzione così importante da giustificare un nuovo approccio al lavoro chiuso. In questo senso rimane abbastanza chiaro che quello che doveva fare il buon Bogren non era tanto un lavoro di "pulizia" o di "miglioramento" ma doveva, semplicemente, dare quel qualcosina in più che arricchisse ulteriormente questo grande disco senza, in alcun caso, stravolgerlo. L'intento è completamente riuscito ed ascoltando questo Remedy Lane Re:visited si possono apprezzare quei "ritocchi" che vanno in linea con il messaggio del disco. Sono interventi mirati che ingrandiscono la forza narrativa di questo lavoro, accentuando quell'ambiente cupo raccontato nelle tredici tracce.




Forse aver fatto "solo" questo lavoro era poco e per stuzzicare ancora di più i fans della band i Pain of Salvation hanno deciso che ci fosse un secondo disco intitolato Re: live. Già come indica il nome si tratta di album live ma la particolarità sta in due cose. La prima è che è lo stesso Remedy Lane suonato nello stesso ordine della versione in studio. La seconda è che non si tratta di una registrazione fatta nel periodo successivo all'uscita del disco ma dell'esibizione del gruppo al ProgPower USA Festival del 2014.
Non è il primo disco live pubblicato dalla band e dunque si sapeva già della loro massiccia qualità dal vivo. Della loro fedeltà e del loro virtuosismo. Questo disco ne è la conferma. Emergono fuori le individualità del gruppo che mettono in risalto che oltre a  Gildenlöw la chiave del successo degli svedesi è rappresentata dal resto della band. Strumentalmente non c'è alcuna sbavatura e c'è anche spazio per qualche variazione sui brani originali che dotano di pathos un live sentito. Vocalmente si ha l'impressione che la band conta con due o tre cantanti che potrebbero perfettamente essere dei frontman. Qua, a differenza di quello che capita nel disco di studio non è Gildenlöw ad essere la voce principale in tutti i brani ma in paio di punti lascia il microfono.
Come ultima informazione utile bisogna ricordare che il leader dei Pain of Salvation rischiò seriamente la vita contraendo una malattia rarissima della quale riuscì a rimettersi nei primi mesi di quel 2014.




In questa recensione naturalmente non vi abbiamo descritto in modo approfondito questo Remedy Lane perché questa nuova uscita non modifica affatto il lavoro originale e quello che ci interessava fare era risaltare il lavoro di remix e la performance live. In quel senso c'è da dire che, per quanto riguarda la parte re:visited, il disco si arricchisce di sfumature che lo rendono ancora più intenso; invece la parte re:lived esalta le notabili capacità del gruppo di suonare con una fedeltà encomiabile, con un'energia contagiosa creando un show case bellissimo. Naturalmente, però, rimaniamo con la bocca asciutta in attesa del nuovo disco d'inediti, del quale si conosce già il titolo: In the Passing Light of Days. Riuscirà ad essere all'altezza di questo capolavoro?

Voto 8,5/10
Pain of Salvation - Remedy Lane Re:visited
Inside Out Music
Uscita 01.07.2016

Sito Ufficiale Pain of Salvation
Pagina Facebook Pain of Salvation

mercoledì 13 luglio 2016

Airbag - Disconnected: L'eredità raccolta

(Recensione di Disconnected degli Airbag)


L'eredità è un concetto interessante. Musicalmente possiamo associarla alla capacità di lasciare un'impronta così viva che diventa l'elemento essenziale di un gruppo. Qualcuno potrebbe parlare di copia, ma in molti casi è una reinterpretazione di un concetto unico.
L'eredità è diversa dall'influenza perché diventa l'elemento principale dentro alla musica di un gruppo. L'influenza, invece, è un'aggiunta che si mescola con tanti altri elementi.

Oggi ci occupiamo dei norvegesi Airbag e del loro quarto disco: Disconnected. Se abbiamo fatto delle premesse è perché qua siamo di fronte ad un esempio tangibile di eredità e non di influenza. Le sei tracce di questo nuovo lavoro potrebbero, perfettamente, essere state, nella loro totalità o in modo parziale, delle canzoni scritte dai Pink Floyd, dai Marillion o dal buon Steven Wilson, sia da solista che con i suoi Porcupine Tree. Credo che avendo nominato questi artisti sia molto semplice capire in che mare stiamo nuotando. Le acque sonore che ci circondano sono quelle di quel progressive rock elegantissimo, curato, impeccabile. Dunque acque calme ma bellissime. Acque che permettono di apprezzare un fondale ricco.





Il rischio, e ci rendiamo che quando si scrive musica si va, sempre, incontro ai dei rischi, è quello di non riuscire a scovare l'originalità. Insomma, in un primo ascolto disinteressato questo Disconnected potrebbe sembrare un bel lavoro di taglia e cucito dove le stoffe utilizzate sono quelle dei gruppi precedentemente nominati. Soprattutto perché certi elementi richiamano fortemente aspetti di quei gruppi. La voce è un incrocio interessante tra quelle di Steve Hogarth e di David Gilmour. Gli assoli di chitarra e le tastiere sono, invece, di marcata scuola pinkfloydiana. E' impossibile non farsi venire in mente questi mostri sacri mentre le canzoni scorrono. E' d'obbligo, dunque, chiamare in soccorso il concetto iniziale di questa recensione, cioè quello dell'eredità. Grazie ad essa tanti gruppi mostruosi sono nati e hanno contribuito alla crescita della musica. Senza i Pink Floyd sicuramente ci saremmo sognati i Porcupine Tree, i Dream Theater o gli Anathema. Per quello gli Airbag riescono a regalarci un disco coerente, bello, elegante e piacevolissimo. Un disco da mettere in repeat senza paura di stancarsi.

Andiamo, adesso, ad illustrare tutti gli altri elementi che vengono fuori ascoltando con cura questo Disconnected. La prima cosa che salta fuori è che come intenzione lirica e musicale è un disco che possiamo accostare perfettamente a quel capolavoro dei Porcupine Tree chiamato Fear of a Blank Planet. Ad adunare questi due lavori c'è la tematica che è quella della società attuale, degli obiettivi personali che ci impone e di quanto sia frustrante non raggiungerli. Non solo, entrambi i dischi hanno un tocco di solitudine, di malinconia, di consapevolezza di essere diversi. Questi due lavori sono dei dischi che porterebbero perfettamente a capire che tempi viviamo e che la vita social ci ha regalato un'orrore infinito: siamo pieni d'amici virtuali e, allo stesso tempo, vuoti da quelli reali.



Musicalmente abbiamo tracciato le linee principali di questo lavoro, ma è buono "condire" questo piatto segnalandovi quelle sfumature che vengono fuori. In certi punti questo Disconnected prende certe pieghe di post rock stile Sigur Rós, in altri ci ricorda l'aspetto progressivo dei grandi Archive, una delle principali band del trip hop, e per finire la title track del disco include una linea di batteria che sembra quasi un omaggio ai Tool e ai, già molto citati, Porcupine Tree.

Se vi volete avvicinare cautamente al disco vi consigliamo la terza traccia Slave, brano che da l'idea della solitudine e dell'intimità che regnano come mood di questo lavoro. L'altra canzone da sottolineare è proprio Disconnected che con i suoi tredici minuti snoda un brano degno dei Pink Floyd.




Gli Airbag sono riusciti a sfornare un disco ipnotico che cattura l'ascoltare. Sono riusciti a scrivere un disco allo stesso tempo attualissimo e senza tempo. Sono dei fedeli eredi dell'intelligenza del progressive rock, cioè quel genere che, con eleganza, racconta i paradossi dell'umanità. E' un bellissimo lavoro.

Voto 8,5/10
Airbag - Disconnected
Karisma Records
Uscita 10.06.2016

Sito Ufficiale Airbag
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lunedì 11 luglio 2016

Astronoid - Air: La spensieratezza della prima volta

(Recensione di Air degli Astronoid)


Si sa, spesso il troppo stroppia. Si sa, quando capiti in mezzo ad un'onda che ti travolge è difficile capire cosa c'è in quella massa d'acqua mescolata con la sabbia e chissà con quante altre cose. Ebbene, il disco del quale andiamo a parlarvi quest'oggi gioca col rischio di essere eccessivo, di non lasciare spazio ai dettagli. Diciamo bene che gioca con questo rischio perché a tratti è così ma in altri momenti regala dei momenti veramente piacevoli ed originali.

Oggi vi parliamo del primo LP degli statunitensi Astronoid intitolato Air
Per chi ha letto altre nostre recensioni sicuramente è chiaro che spesso ci piace cercare i dualismi o le opposizioni dentro ai dischi che ascoltiamo. Questo Air ne ha uno fondamentale. E' un disco "leggero" come vuole indicare il suo nome per via dell'energia e della vitalità trasmessa dalle nove tracce di questo lavoro. Elementi che sono presenti soprattutto nelle armonizzazioni vocali di tutte le canzoni. Allo stesso tempo, però, è un disco pienissimo e, quasi, pesante per via della quantità di note suonate dagli strumenti che completano la formazione.




Il rischio che corrono gli Astronoid è molto vasto, perché, presi singolarmente, ogni riparto del gruppo suona qualcosa che potrebbe venire fuori da svariatissimi generi. Le voci, per esempio, sono quasi delle voci dream pop, perfettamente immaginabili su una base strumentale che non ha nulla a che fare col resto degli strumenti. Le chitarre, invece, denotano le forte influenze del black metal e non solo, certe sfumature ricordano tanti bravi chitarristi del metal old school e del death metal anni 90. La basse ritmica è martellante, un fiume in piena che richiama il technical death metal e il black metal scuola Dimmu Borgir.
La domanda rimane una: ma tutti questi elementi messi insieme suonano bene?

Prima di rispondere citiamo quello che il gruppo stesso manifesta come unico scopo: scrivere musica bella. Assolutamente generico ma utilissimo per giustificare le scelte. Anche se la band esiste dal 2012 ricordiamo che questo è il loro primo LP. Questo significa che la loro strada deve ancora snodarsi attraverso tanti paesaggi e, nella musica, quello è l'unico modo di crescere e di trovare la propria dimensione. In altre parole questo lavoro riflette le personalità di ogni componente offuscando un po' l'insieme. Sembra che ogni membro della band stia facendo non soltanto quello che fa meglio ma anche quello che ama di più. Mossa onestissima e validissima ma pericolosa.




Adesso possiamo rispondere alla domanda che abbiamo posto due paragrafi fa. La risposta, e qua sta il grande pregio del gruppo, è sì, questi elementi così dispari suonano bene insieme. Non soltanto, sono un'ondata di originalità, sono uno sforzo, conscio o meno, di comunicare qualcosa di nuovo.




Le premesse sono molto interessanti e l'augurio è che gli Astronoid continuino a sfornare dischi perché quest'insieme, da loro nominato dream thrash, deve essere definito meglio perché ha tutte le potenzialità di diventare un genere seguido, del quale loro possono essere i pionieri. 

Voto 7,5/10
Astronoid - Air
Blood Music
Uscita 10.06.2016

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